Venti chilometri di passione-Capitolo 15
Mio nonno paterno si chiama
Adriano Tasselli. È morto quattro anni fa, in primavera. Oggi avrebbe oltre
ottant’anni. Un cancro ai polmoni se l’è portato via in meno di due settimane.
Era alto circa quanto me, pesava
un centinaio di chili. Era uno di quegli uomini in sovrappeso ma tonici,
muscolosi, notavi che per una buona parte della sua vita aveva fatto lavori
manuali e piuttosto pesanti. Aveva moltissimi capelli e riccioli, quasi crespi
e li teneva molto corti e tirati indietro. Erano grigi, non bianchi. Le
sopracciglia ce le aveva folte e lunghe, incutevano timore quando corrucciava
la fronte mentre diffondevano serenità e dolcezza quando la distendeva.
Nato a Pistoia, con un fratello e
una sorella, ha abitato per alcuni anni in Porta San Marco, e una volta finita
la guerra venne sfollato a Montale, nei pressi di Pistoia, in una casa di
contadini, la famiglia di mia nonna Loriana.
Lì si conobbero e lì nacque il
loro amore. Si conoscono praticamente da una vita e considerando cinquant’anni
di matrimonio si può dire che il loro rapporto è durato una settantina di anni.
Non riesco a mettere a fuoco
questo concetto da quanto mi sembra incredibile, ma probabilmente è colpa delle
dinamiche a cui assisto e assistiamo ogni giorno. Matrimoni che nascono senza
una base solida e che si disintegrano dopo poco tempo come un castello di
sabbia sulla riva del mare.
Un tempo c’era più stabilità, un
tempo c’era meno bisogno di psicologi perché, tra le altre cose, si aveva uno
scopo, un traguardo da raggiungere e ce la mettevano proprio tutta per
riuscirci.
Oggigiorno a quarant’anni o
cinquanta è invece normale stare a zonzo la notte per locali in cerca di
frivole emozioni, di fugaci rapporti erotici magari avuti con chi potrebbe
essere tua figlia o tuo figlio. È come vedere una parte del gregge che si
distacca dal gruppo e che si perde, illudendosi di poter godere fino in fondo
di un senso di libertà del tutto effimero, che può darti piacere nell’immediato
ma sicuramente sconforto e solitudine con l’andare del tempo. Il nonno Adriano
e la nonna Loriana fecero il contrario, e pensandoci non si può che essere
orgogliosi di loro.
Adriano passò diversi anni nella
fattoria in cui lavorava la famiglia di mia nonna.
Vivevano tutti in un’enorme casa
senza riscaldamento, solo con dei grossi camini sparsi per le stanze. Lì mio
nonno conobbe i parenti di mia nonna che sono poi diventati personaggi storici
per noi nipoti, per me in particolare credo.
Mi è sempre piaciuto, e mi piace
ancora, farmi raccontare del duro lavoro che dovevano affrontare durante i vari
periodi dell’anno, di come le donne di casa portassero da bere ai propri uomini
durante la semina delle viti o la raccolta del grano. Delle colazione del nonno
Fello, il nonno di mia nonna, a base di pane e prosciutto e una sorso di
grappa, perché diceva che “gli apriva i canali”.
Da Montale mio nonno andava a
scuola a Pistoia in autobus, ma spesso e volentieri coi soldi che sua madre gli
dava per il biglietto, lui andava a giocare a carte. E allora la nonna Giulia
gli tirava gli zoccoli addosso senza neanche prenderli in mano, cioè facendoli
partire direttamente dal piede, e poi se li faceva riportare. Mi son sempre
chiesto come sia riuscita a non rompere mai qualcosa.
Era buffo mio nonno quando mi
raccontava episodi di questo tipo perché la sua voce aveva un tono nostalgico,
come se fosse sicuro che con delle sonore legnate si sarebbe potuto porre
rimedio a molti problemi di oggi.
Vivendo per diversi anni insieme
a dei veri contadini imparò praticamente il loro mestiere, o una buona parte di
esso.
Tutto sommato, per quanto a primo
impatto possa sembrare il contrario, essere contadini in tempo di guerra e
quindi di carestia era un fatto positivo, in quanto si produceva da soli tutto
ciò di cui si aveva bisogno, senza dover pagare negozi od alimentari. Infatti
mio nonno, prima e dopo essere stato sfollato, pativa letteralmente la fame.
Suo padre, il nonno Natale, era
ferroviere e sua madre casalinga. A quanto pare i soldi non bastavano mai, e
quindi spesso non mangiavano o mangiavano poco e male, infatti mi ha raccontato
molte volte che, quando c’era abbondanza di cibo sulla loro tavola, mangiavano
polenta con un velo di marmellata sopra. Polenta e solo polenta. Polenta
gialla, dura e alta. Il caffè lo facevano tritando i gusci delle bacche che il
nonno Natale andava a raccogliere sul Viale Arcadia, ancora oggi fiancheggiato
su entrambi i lati da alberi. Vivevano di poco o niente.
Adriano coi suoi fratelli ha frequentato
la scuola elementare Attilio Frosini, la stessa dove siamo andati io e mia
sorella Francesca. A casa sua ci sono molti album fotografici con delle foto
sue durante le elementari. Quelle foto che si fanno alla classe intera una
volta ogni anno, usanza di cui non ho mai capito l’utilità ma alla quale ci si
deve adeguare. Sono ovviamente in bianco e in nero, sono scattate nel giardino
posto sul retro della scuola coi bambini posizionati in piedi su dei gradini
eleganti. Gli scolari alle estremità hanno il braccio destro alzato al cielo,
il saluto romano adottato da Mussolini. Mio nonno è nella foto uguale a come me
lo ricordo. È simile se non uguale a mia madre, e io da lui ho preso
sicuramente il celeste degli occhi e le orecchie grandi un po’ a sventola. Non lo ringrazierò mai
abbastanza.
Fin da piccolo ha avuto ingegno
e, avendo frequentato quelle che all’ora si chiamavano “scuole industriali”,
capacità nel compiere lavori manuali. Idraulici o di falegnameria, meccanici o
consistenti in vere e proprie costruzioni. Era stato quasi povero da bambino,
quindi ha sempre saputo risparmiare e non ha mai buttato via niente. La
soffitta di casa sua è letteralmente piena di oggetti di tutti i generi che
sembrano inutili. Oggi lo sono, sicuramente, senza di lui. Quando Adriano era
in vita invece sapeva riusarli un po’ tutti, per accomodare o inventare
qualcosa. Non ha mai fatto questo di lavoro, ma l’ha sempre avuto come una
specie di hobby, o usanza insita in sé provocata dal misero stile di vita che
aveva avuto da piccolo.
Finite le superiori andò a lavorare
nel pastificio Ciampalini a Pistoia. Dovette pure prendere la patente per
camion perché alle volte lo mandavano a consegnare molta merce con i camion
della ditta. Quando parlavamo di questo periodo della sua vita non si
dimenticava mai di ricordarmi che a neanche vent’anni i sacchi di farina che
caricava e scaricava da quei maledetti camion pesavano un quintale l’uno e che
in una settimana lui faceva più ore di straordinario che di orario normale. Non
aveva soldi ma voleva sposare mia nonna, e quindi l’unica soluzione era
lavorare a più non posso.
Dopo qualche anno comprarono un
terreno e ci fecero costruire la loro casa, ovvero il piano terra di quella
attuale. Le fondamenta le gettarono mio nonno, il nonno Natale, i due fratelli
di mia nonna e un muratore. Io se ci penso rimango incredulo. Non so
immaginarmi una fatica simile, e non parlo solo di quella fisica, ma di quella
spirituale, mentale. Costruirsi una casa da solo senza sapere se poi si
riuscirà a mantenere, a farla funzionare veramente, quindi renderla un nido
dove tirar su famiglia e far crescere i propri figli e il proprio matrimonio.
Oggi pensandoci bene ci sono comunque questi problemi, la differenza è che
sembra tutto più semplice e normale. Per certi versi è un bene, per altri un
male.
In una parte della loro nuova
casa i miei nonni crearono la loro attività, una bottega che vendeva
cancelleria e qualche vestito. Nell’altra metà della casa ci vivevano.
L’attività ingranò la marcia giusta e mio
nonno si licenziò dal pastificio per andare a lavorare con mia nonna.
Alzarono la casa di un piano,
così da poter ingrandire la bottega all’intero piano terra ed andare a vivere
comodamente di sopra. Venne fuori una casa molto grande, tutt’oggi quando la
guardo sui lati mi stupisco per la sua lunghezza.
E la piccola bottega iniziale
diventò un negozio con licenza per la vendita dei tabacchi, con molta più merce
in vendita compresi vestiti di una certa qualità.
Quelli erano esattamente i tempi
in cui, con buona volontà e impegno si poteva arrivare in alto, andando a stare
molto bene. È quel che fecero i miei nonni, anche se quel lavoro, a detta loro,
era veramente stressante e spossante. Loro hanno vissuto per il lavoro, non
hanno lavorato per vivere. Probabilmente erano incentivati dal ricordo del loro
passato, cioè come dire, sono stato male in passato, se adesso però c’è la
possibilità di stare meglio e continuare ad aumentare il benessere perché non
dovrei farlo? Ed in effetti non posso proprio dar loro torto.
Mia nonna ci sapeva fare coi
clienti. Era paziente, sempre sorridente, mai stanca e capace di vendere due
paia di pantaloni e una maglia ad una persona quando questa aveva bisogno solo
della maglia. Inoltre lei da ragazzina ha fatto la sarta, quindi se i clienti
avevano bisogno di ritocchi sui vestiti comprati lei era ben lieta di
accontentarli. Solo successivamente ne assunsero una.
Mio nonno me lo immagino bene dietro il
bancone, a fare i conti a mano su pezzetti di carta che lui teneva apposta per
quello scopo, molti altri invece li avrebbero cestinati.
Credo che tra i due fosse lui a
vendere i tabacchi, e mi ha raccontato più d’una volta che mio zio Marco, da
ragazzo, compiva diverse razzie nel reparto delle sigarette. Mia madre era
invece più interessata ai nuovi arrivi dei vestiti e delle borse.
Sotto Natale vendevano moltissimo
e dovevano assumere un'altra commessa da quanti clienti gli arrivavano in quel
periodo. Addirittura, quando mia madre si fidanzò con mio padre, pure lui
andava ad aiutarli in negozio. Se ci fossi già stato, sicuramente ci sarei
andato pure io e mi sarei anche divertito.
Si alzavano la mattina alle
sette, dall’una alle due di pomeriggio pranzavano e poi fino alle otto di sera
rimanevano aperti. In fine, dopo cena, passavano altre due ore buone a
rimettere a posto.
Io sono nato tre anni dopo che
erano andati in pensione, e mi dispiace un po’ perché mi sarebbe piaciuto
vederli lì indaffarati nel loro lavoro. Mio cugino Francesco è stato l’unico ad
avere il piacere di assistere a questo spettacolo, e non manca di raccontarci
di quando i miei nonni lo portavano con sé dai fornitori di giocattoli e gliene
compravano sempre uno. O di quando lui, da piccolo, gironzolando per il negozio
apriva la confezione di un giocattolo, così mio nonno quando se lo vedeva
arrivare davanti lo sgridava corrucciando la fronte e imponendo alle sue
sopracciglia una forma terrificante, ma tanto ormai la confezione del
giocattolo era rotta quindi mio cugino se ne tornava a casa con l’ennesimo “regalo”.
Per quanto un mestiere del genere
creasse preoccupazioni ed ansie, sono sicuro che vivessero serenamente, ma non
solo per dei lauti guadagni, ma per l’esaltazione dovuta all’uscita da quel
tunnel buio e disastroso chiamato dopoguerra. Le città rinascevano e le persone
si arricchivano e compravano e spendevano soldi e il tenore di vita degli
italiani era in crescita continua.
Nel 1989 cedettero l’attività ad
una signora intenzionata a proseguire sul cammino da loro tracciato, ma ben
presto chiuse baracca e burattini e restituì le chiavi del piano terra i miei
nonni. Erano già gli anni novanta, è vero, ma c’è da ammettere che in pochi
sarebbero riusciti a proseguire il loro lavoro mantenendo anche quel livello.
Così si succedettero diverse
attività, solo in affitto però, poiché il negozio dei Tasselli aveva
definitivamente cessato di vivere.
Prima di chiudere chiesero a mia
madre se avesse voglia di continuare l’attività, godendo ovviamente del loro
diretto aiuto, concretizzabile anche nella loro presenza fisica. Rifiutò
preferendo un posto in banca. Mi ha poi detto mia mamma che non ne voleva
sapere di fare quella vita così faticosa e così dedita al lavoro.
Lei, tutt’oggi, preferisce
lavorare per vivere anziché vivere per lavorare, ed infatti appartiene a
tutt’altra generazione.
0 commenti:
Posta un commento