Venti chilometri di passione-Capitolo 24
Pasqua è passata anche
quest’anno, sono tornato dal mare e ho rivisto Pietrasanta e Giulia. Sono di
nuovo qui a raccontare di meno di un anno fa con le mani che mi tremano per
quel che ho provato due giorni or sono.
Sto pensando a lei.
La scorsa estate ho passato molto
tempo al bagno di Giulia in compagnia anche dei suoi genitori. Non so se sia
stato solo merito mio, fatto sta che con loro mai e poi mai mi son sentito in
difficoltà o in imbarazzo.
Addirittura la prima cena insieme
a loro fu praticamente a sorpresa, perché accompagnai Giulia a casa dopo essere
stati insieme in un maneggio vicino Pietrasanta, salii in casa e trovai la
Piera indaffarata in cucina a preparare la cena anche per me.
Ricordo che abbozzai un sorriso
incerto, guardai i miei vestiti polverosi e dissi a Giulia un po’ scocciato che
avrebbe fatto meglio ad avvisarmi prima, così da darmi la possibilità di
presentarmi in condizioni decenti.
Fu una cena deliziosa e
tranquilla, come piacciono a me. Umberto aprì un paio di bottiglie di vino che
un suo amico gli aveva portato, ne bevvi solo un paio di bicchieri perché
dovevo guidare per tornare a casa.
“Se non mangi con gusto e non fai
la scarpetta alla fine mi offendo”, mi disse la Piera ad un certo punto, e da
quel momento in poi mi godetti ancor di più la cena.
Come si fa non voler bene a due
persone che ti accolgono in casa loro con questo modo di fare amichevole,
affettuoso e spontaneo.
Spesso e volentieri quando la
sera riportavo la Giulia a casa salivo pure io e ci fermavamo sul divano a fare
due chiacchere coi suoi genitori, e certe volte mi piegavo in due dalle risate
che mi faceva fare Umberto quando raccontava eventi ironici con fare serio.
La vita in Versilia con persone
di questo tipo è esattamente come ce la immaginiamo, fresca, rilassante, piena
di nostalgia e di ricordi, perché un posto di questo genere o lo si frequenta
da anni e anni oppure mi dispiace ma non lo si può capire fino in fondo.
E per Giulia vale esattamente la
solita cosa.
Quando a volte venivamo la sera a
casa mia per salutare i miei ci mettevamo in giardino a giocare a carte. Mia
sorella Chiara e mia sorella Sara se ne andavano a letto dopo poco e alla fine
rimanevo a godermi la notte fresca con la mia bambola, mia sorella Francesca e
mio padre che leggeva il giornale bevendo chinotto ghiacciato.
Il Pino che abbiamo in mezzo al
giardino ci copre le teste, sfiora il tetto in certi punti e fa colare la
resina vicino ai nostri piedi e sui tettini delle nostre macchine parcheggiate
lì fuori, accanto al muro di cinta.
Molte volte mentre sono seduto in
giardino, magari durante la cena, alzo la testa e lo guardo, maestoso,
inquietante, pieno di storia e di vita.
Guardo il moncherino di quel ramo
enorme che l’anno scorso il giardiniere ha fatto tagliare non so per quale
motivo preciso, e ricordo che quando ero piccolo pensavo che se fossero entrati
i ladri in casa io dal terrazzo di camera mia sarei salito su quel ramo, tanto
era grande e lungo, e poi sarei sceso prudentemente rimanendo nascosto
dall’enorme tronco dell’albero.
Avrò avuto una decina d’anni, e
un giorno a pranzo mio nonno Adriano staccò dall’albero un pezzetto di
corteccia piuttosto grande, io protestai perché sapevo che all’albero non aveva
fatto bene, ma appena vidi mio nonno tirar fuori dalla tasca il suo immancabile
coltellino ed intagliare una piccola barchetta nel pezzo di corteccia, smisi di
protestare e rimasi a bocca aperta a guardare.
Il nonno ha sempre tenuto in tasca
quel coltellino e un tagliaunghie, e sul Pino si può ancora intravedere la
cicatrice che sta ad indicare che quello è il tuo posto, lì hai passato
un’infinità di tempo e sempre lì ne passerai altrettanto.
Io ero spensierato, mi godevo le
vacanze, e non mi accorgevo che la donna che mi stava accanto, invece, si stava
stancando di me.
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