Venti chilometri di passione-Capitolo 11
Il viaggio non durò molto, quattro ore circa, e non fu eccitante come il precedente: lo passammo seduti su un divanetto del treno come chiunque altro e come ci succede sempre.
Ricordo che io finii un pacchetto di crackers e formaggio fuso che a Giulia facevano vomitare. Ammetto di aver sempre avuto il palato meno fine del suo.
L’ostello dove avevamo prenotato la stanza ci spiazzò, non sembrava una struttura essenziale come le altre e fatta apposta per ospitare giovani avventurieri, era piuttosto una sorta di albergo a prezzi bassi.
Era grande, pulito e dietro alla reception non c’era il classico trentenne ribelle e tatuato con la birra di fianco al computer e il cappellino girato indietro, c’era invece una signorina graziosa, ben vestita e sorridente.
I muri interni erano verde chiaro e bianchi, e molto puliti. I tavolini nella sala per la colazione sempre verdi su uno sfondo bianco rappresentato da delle grandi pareti senza finestre.
Lo stile non era molto in sintonia con le nostre aspettative e con lo spirito che aveva caratterizzato l’intero viaggio, ma dopo nove giorni all’opposto, un po’ di “lusso” ci avrebbe fatto altro che bene!
La camera era rettangolare, non quadrata. Era addirittura provvista di tv, roba mai vista prima. Sul letto erano piegati sapientemente due enormi piumoni bianchi come le pareti, e mi ricordavano moltissimo quelli che ho sempre trovato negli alberghi sulle Dolomiti, quando ci andavo in vacanza coi miei genitori.
Vienna era diversa da Zagabria e Praga. Più “normale”, più occidentale, più vicina, se non uguale, alle città nostre.
Ci sentivamo vicini a casa, e quindi alla fine del viaggio, ma questo pensiero mi sforzavo di cacciarlo sempre dalla mia mente.
La prima sera uscimmo dall’ostello ben coperti, addirittura indossai un giacchetto.
Giulia, come al solito, era infreddolita, ma ponemmo rimedio a questo disagio ficcandoci in un posto per cenare. Era una stamberga di proprietà di un gruppo di cinesi, o giapponesi. Cucinavano i nuddles, fritti non so bene come. Li provai e li inghiottii, niente di più e niente di meno. Mi servirono solamente per zavorrarmi lo stomaco.
Per altro, caratteristica per me strana, potevo fumare dentro i locali chiusi, tipo questo dove cenammo. Nonostante tutti gli altri clienti fumassero io chiesi comunque il permesso, quasi come se volessi sentirmi dire di poter fare una cosa severamente proibita dalle mie parti. Quella fu una sigaretti goduta al massimo.
Di Vienna cosa potrei dire, è una città molto vicina alle nostre per impressionarmi in qualche modo. Inoltre io c’ero già stato due anni prima coi miei genitori, per quanto avessi passato oltre metà vacanza a letto con la febbre.
Giulia in questo è estremamente diversa da me. Lei voleva, e vuole tutt’ora, immagazzinare tutto ciò che un posto nuovo ha, ovvero tutto dato che si tratta di una località che non ha mai visitato. Quindi fotografie a non finire, percorrere in lungo e in largo ogni via e viuzza della città.
Io preferisco invece prenderla con più calma. Le fotografie ad ogni palazzo ritenuto mediamente carino o caratteristico mi interessano poco, non scapicollarmi da una parte all’altra della città perché essere stanchi morti dopo due ore non mi facilita la missione che sto eseguendo, ovvero vivere una realtà diversa dalla mia. Insomma, a Parigi un conto è fotografare la Torre Eiffel, come a Roma il Colosseo, e un altro conto è scattare fotografie ad ogni palazzina o strada solo per il fatto che è parigina.
Ad esempio, a Zagabria mi piacque da morire, durante il secondo giorno, fermarmi e sedermi in un giardino pubblico esattamente in mezzo al traffico del centro città. Feci due passi e mi rifermai da due signori anziani per comprarmi una pannocchia arrostita sul fuoco. Mi incuriosì il loro modo di fare, di porsi con gli estranei e notai come, anche loro, guardarono noi due italiani come una tappa da raggiungere. Ci invidiarono, credo.
E infatti Vienna mi ha lasciato meno perché appunto le persone del posto sono dannatamente simili a noi, anche come lineamenti del volto.
Vienna è una di quelle città abbastanza vicine ai nostri confini, è oggettivamente bella e quindi da visitare. Inoltre per me e per Giulia tornava comodo perché rimaneva di strada. Una sorta di meta finale inevitabile.
L’ultimo giorno decidemmo di passarlo al Prater, un parco giochi che è una specie di Gardaland in miniatura.
Giulia non stava bene, aveva sintomi da influenza, ma cinque fragole ricoperte di cioccolato e infilate in uno spiedo le risollevarono il morale. Conservo una foto speciale di quel momento. Stava addentando la prima delle cinque fragole, aveva i capelli raccolti e le spalle piccole. Due occhi grandi e celesti.
Io feci qualche gioco mentre lei mi guardava, rideva e mi fotografava. Roba tipo macchinine su una pista o tiro a segno. Poi ci infilammo in una sala giochi e ricordo che non lasciavo che Giulia finisse una partita da sola perché avevo sempre da correggerla. Se correva con la formula 1 sbagliava nel cambiare marcia, e se correva con le moto da corsa sbagliava ad ogni curva.
Di Vienna conservo principalmente sensazioni e brividi sulla pelle, meno fotografie.
Da Vienna ripartimmo la sera stessa.
Io ero in infradito, con lo zaino in spalla e mi trascinavo dietro il mio trolley rosso.
Giulia indossava una paio di Converse sbiadite, vecchie, belle e che mi fanno tornare in mente decine di ricordi. Tutti piacevoli, ma che mi fanno venire il groppo alla gola e mi rattristiscono.
Alla stazione aspettammo il treno per una mezz’ora, e con nostro grande sollievo incontrammo un ferroviere italiano che avrebbe fatto il nostro stesso tragitto, ovvero Vienna-Milano.
Era sicuramente un fumatore. Aveva appesa al collo una di quelle moderne sigarette elettroniche. Quelle lunghe e nere provviste di un cordoncino, così da poterle tenere agganciate da qualche parte. Fumava avidamente, e lo capisco benissimo, infatti quelle “false pipe” non danno l’esatta sensazione che dà una sigaretta, e per avvicinarcisi leggermente si deve fumare molto forte.
Anche senza quell’arnese al collo avrei indovinato che fumasse, in quanto aveva la pelle del viso sciupata superficialmente e il collo rosso che diventava color fuoco appena iniziava a parlare.
Il viaggio sarebbe durato tutta la notte, quindi avremmo dormito nelle cuccette.
A dir la verità ogni volta che pensavo ad un viaggio come l’Interrail, che appunto si basa sull’utilizzo del treno come unico mezzo per spostarsi, credevo che si passassero più notte in un vagone del treno dormendo nelle cuccette, e invece no, a noi capitò solo l’ultima notte.
Dormii malissimo ma mi piacque da morire.
Appena entrati e sistemati i bagagli all’interno della nostra stanzetta, Giulia andò al bar a prendere la cena. Rientrò dieci minuti dopo con una zuppetta per sé, e un wurstel con senape per me. I letti erano sistemati uno sopra l’altro.
Dopo cena ci sedemmo su quello sopra e scrivemmo qualche pagina del diario di viaggio che avevamo deciso di tenere. Quando stavamo per crollare dal sonno io andai di sotto e mi infilai sotto le coperte. Passò un minuto scarso e chiesi a Giulia se aveva voglia di venire a sdraiarsi con me. Si mise su un fianco e mi diede le spalle. Io mi avvicinai, passai un braccio sotto il cuscino, l’altro sopra il suo fianco e le strinsi le mani. Quando l’abbracciavo in quel modo mi faceva tenerezza e si accentuava la fragilità che, in certe circostanze, la caratterizzava. Ha le mani piccole. La pelle sempre morbida e le unghie curate. Non roba da estetista, ma semplicemente tonde, leggermente lunghe e sempre colorate con smalti belli e stravaganti. Dei suoi adoro uno grigio pastello, quello rosso scuro e quello nero. Anche a lei piace molto il nero, soprattutto vestirsi di quel colore.
A metà nottata ci fermammo in una stazione dove, probabilmente, dovevamo aspettare la coincidenza con un altro treno.
Io mi svegliai, mi girai a pancia sotto e mi misi a guardare fuori dal finestrino. C’era un gruppo di ragazzi accampati di fianco un binario e una coppia di indiani. I ragazzi si erano sistemati in terra coi sacchi a pelo. Dormivano tutti tranne uno che rimaneva di guardia. La coppia di indiani mi incuriosirono. La donne, presumibilmente anche moglie, se ne stava seduta su una panchina con due valigie di fianco. Aveva i capelli raccolti, una felpa rosa, un paio di pantaloni a pinocchietto color verde pistacchio ed assumeva una posizione molto rigida, quasi fosse afflitta, infatti non ricordo di averle mai visto alzare lo sguardo. Il marito le camminava davanti, avanti e indietro, avanti e indietro. Fumava una sigaretta dietro l’altra e parlava molto. Sembrava le stesse rimproverando qualcosa. Aveva una gran pancia e indossava pantaloni corti e maglietta a maniche corte. Un classico esempio di quegli uomini talmente grassi che difficilmente avvertono il freddo. Mi sarebbe piaciuto sapere se erano realmente in conflitto oppure se era solo un’impressione mia.
“Sei sveglia?” chiesi a Giulia. Lei rispose affermativamente, e allora le richiesi di scendere di nuovo e di rannicchiarsi accanto a me nel letto.
Non ricordo le esatte parole, ma le confessai di essere terribilmente triste per la fine del nostro viaggio e anche in ansia, tanto per cambiare, perché non sapevo quando l’avrei rivista. Ovviamente due o tre settimane dopo, come succedeva da molto tempo a questa parte, ma in quel momento riuscivo solo a pensare che quell’avventura era finita e con essa anche l’estate.
Mi confortò e mi rassicurò, come sempre.
Arrivammo la mattina alla stazione di Milano centrale, bella e piena di treni.
Prendemmo il treno per Firenze e da lì per Pistoia.
Di lì a poco sarebbe arrivata la mamma di Giulia a prenderla in macchina, poiché era ancora al mare a Pietrasanta.
Appoggiammo i nostri tre bagagli su una sedia nello stretto corridoio della stazione.
Aspettammo.
Arrivò la mamma di Giulia che salutai senza avvicinarmi alla macchina. Era venuta con la sua cabrio, quella che amavo guidare la sera d’estate al mare. Ero triste e avrei voluto piangere. Baciai Giulia, e la lasciai andare.
La vidi partire a tutta velocità con i capelli scomposti dal vento. Sono sicuro che se li rimise immediatamente a posto, come faceva ogni volta che era con me.
I miei genitori erano a lavoro, quindi presi un autobus e, in infradito, tornai a casa.
Doccia veloce e subito dalla nonna Loriana a pranzo, dove mi aspettavano per sentire i miei racconti.
“Bello davvero, un’esperienza fantastica. Fatelo se avete tempo e modo”, dissi ai presenti.
In realtà quelle erano parole di circostanza. In realtà avrei voluto piangere ancora e tentare di far capire quanto mi avessero lasciato quelle due settimane scarse con Giulia a giro per l’Europa, e quanto le fossi grato per avermi convinto a lasciarmi andare, mandando al diavolo la mia ansia perenne.
Ogni mattina vado alla stazione per prendere il treno per andare all’università a Firenze. Ogni mattina non posso fare a meno di rallentare il passo e volgere il mio sguardo verso quella sedia nel corridoio della stazione sulla quale, un giorno di diverso tempo fa, poggiai due zaini polverosi.
0 commenti:
Posta un commento